Fincantieri, la parola ai lavoratori
Nonostante l’allarmismo sollecitato dal gruppo dirigente di Fincantieri, la manifestazione della Fiom è stata del tutto pacifica. Vi hanno partecipato, a nostro giudizio, duemila persone. Mille, secondo la Questura: fin qui si tratta di difformità di valutazione – per così dire – fisiologiche. È curioso che Fincantieri ne abbia fornito, a sua volta, una in proprio: non più di 400 persone. Evidentemente l’Amministratore delegato li ha riconosciuti uno per uno dalla finestra del Palazzo. Ma, al di là della maldestra gestione della vicenda da parte dell’Azienda, qualche commento merita una risposta. Innanzitutto una precisazione. La Fiom non ha mai dichiarato – come sostiene Roberto Morelli sul Piccolo di ieri – che la vertenza di Fincantieri sia «il terreno di battaglia di una guerra di classe». Ha semplicemente rivendicato la propria «identità di Sindacato di classe», come correttamente riportato da Piercarlo Fiumanò sul Piccolo del 21 maggio). È stata Fincantieri, come riportato sempre da Fiumanò, a far affiggere nelle fabbriche un avviso nel quale si afferma che la vertenza «è il terreno di battaglia di una guerra di classe». Non è questione di lana caprina. Col clima che si è creato attorno alla vertenza invertire le responsabilità (anche quelle solo verbali) non è disattenzione da poco. Ma ciò che mi colpisce nell’intervento di Morelli è la sommarietà dell’analisi e l’indisponibilità a mettere in campo le distinzioni che consentono di capire nelle sue articolazioni la situazione difficile che stanno vivendo il Paese, ma in particolare i settori più deboli della società. Le manifestazioni di piazza costituiscono per Morelli un «gioco al massacro» per una società che dovrebbe invece praticare la coesione. Io credo che la coesione non possa nascere dalla buona volontà dei soggetti, ma debba essere costruita riducendo le disuguaglianze, ripartendo i costi della crisi in proporzione al reddito e, aggiungo, alle responsabilità. Che sono, ovviamente, planetarie e stanno nella costruzione di un’economia di carta che ha fatto più ricchi i ricchi e più poveri i poveri, ma che trovano precisi riferimenti nel Paese con la tendenza delle imprese a investire sui prodotti finanziari piuttosto che su quelli industriali, e con quella parallela a competere tagliando costi e diritti del lavoro piuttosto che investendo su innovazione e ricerca: entrambe magistralmente illustrate da Luciano Gallino nel suo ultimo libro (“Con i soldi degli altri�?, Einaudi 2009). Se viene a mancare, come manca, un progetto politico che abbia l’obiettivo di far recuperare ai salari potere d’acquisto e a ridurre le diseguaglianze economiche e sociali, è chiaro e direi fisiologico che si crei un movimento di protesta che unisce chi vede messo in gioco il proprio futuro e la propria dignità di cittadino, dai giovani agli operai, dagli insegnanti ai pensionati. Come negare del resto a questi soggetti sociali la possibilità di cambiare una situazione nella quale, per guadagnare quanto i top manager delle imprese industriali e finanziarie che portano le maggiori responsabilità della crisi, un lavoratore italiano che guadagni 25000 euro all’anno, dovrebbe lavorare tra i 400 e i 1000 anni, mentre nel 1960 gliene sarebbero bastati 40, come spiega sempre sempre Gallino nel suo libro? La protesta collettiva che si esprime nelle piazze – quella che unisce giovani e anziani, donne e uomini, lavoratori e pensionati – rispetta le leggi, rifiuta la violenza, emargina chi intende praticarla, ed è una componente fondamentale della dialettica democratica, tanto più importante in un Paese nel quale la partecipazione attiva e l’assunzione di responsabilità personale tendono a ridursi all’espressione di voto ogni cinque anni. Certo, poi la protesta deve tradursi in proposte, che la Cgil del resto non ha mai mancato di fare. Certo, poi si deve negoziare. Ma l’accordo non si può raggiungere ad ogni costo. Dev’ esserci, per la Cgil e per la Fiom, un ragionevole grado di coerenza tra quelle proposte, le idee e i principi che le ispirano, il consenso che hanno raccolto, e i contenuti dell’accordo. Nel caso di Fincantieri non c’erano, e non solo per la Fiom, visto che i metalmeccanici della Cisl di Monfalcone lo hanno a loro volta contestato. Se non vi è accordo, quale strumento usare se non la consultazione dei lavoratori? Si tratta di esercitare concretamente la democrazia. E per un Paese sempre più afflitto dalla sindrome del pensiero unico, non è sicuramente un male. Franco Belci, Segretario generale Cgil Fvg