Vertenza Fiat, perché diciamo no allo scambio diritti-occupazione

Sul Messaggero Veneto del 4 gennaio, un editoriale di Alcide Paolini mette a fuoco un punto a mio giudizio determinante per il futuro non solo delle relazioni sindacali, ma anche del diritto del lavoro. Il Paese – sostiene Paolini – non può più permettersi i diritti che la Cgil e la Fiom difendono a Mirafiori come a Pomigliano. E non può farlo in nome della produttività, carburante indispensabile perché la nostra industria rimanga competitiva in un mercato ancora largamente caratterizzato dal modello iperliberista, che pure è stato all’origine della crisi.
Si tratta di una posizione che definirei “adattista”: non si condivide quel modello ma, non essendocene un altro alle viste, non resta che accettarne le logiche. E dunque non resta che scambiare – sia pure a malincuore – i diritti con l’occupazione. Francamente mi pare un’analisi semplicistica. Ma andiamo per gradi, a partire dal significato del termine “produttività”. L’ha definita bene qualche mese fa il vicepresidente di Confindustria Bombassei, sottolineando come si tratti di un concetto molto complessa, condizionato da una molteplicità di fattori. Innanzitutto le aziende, i loro investimenti, la loro capacità di innovare. Poi l’organizzazione del lavoro, da rendere più efficace contrattando coi sindacati, strettamente correlata a piani industriali e a obiettivi di produzione. Infine la parte, per così dire, di sistema: migliori infrastrutture, una pubblica amministrazione più efficiente, minori costi energetici.
Anche se i fattori determinanti sono molti, Marchionne, Bono o Sacconi considerano solo la variabile lavoro. Definendo i lavoratori di volta in volta inadeguati professionalmente, incapaci di sostenere i ritmi necessari all’azienda, assenteisti, colpevoli insomma di rallentare la produzione e mettere a rischio il futuro della Fiat, di Fincantieri e dell’intero Paese. Ridurre le pause, aumentare lo straordinario e spostare la pausa mensa non sono questioni che vengono prima degli altri fattori indicati da Bombassei. La realtà è che si chiedono sacrifici ai lavoratori a scatola chiusa, senza dare loro alcuna indicazione sul futuro dell’azienda, sugli investimenti, sulle prospettive di mercato: esattamente il contrario di quel modello tedesco che viene tanto strumentalmente celebrato. E quando qualcuno chiede di “vedere” i 20 miliardi di investimenti in Italia, Marchionne si indigna e pretende, con insopportabile arroganza, di essere creduto sulla fiducia.
Per quanto mi riguarda, non mi fido di chi ricatta i lavoratori sul referendum, fornendo una versione sconfortante di democrazia, e nel 2010 ha ottenuto come risultato un calo del 16,7% nelle vendite, perdendo in un anno una quota del 2,7% sul mercato italiano, che per il 70% è in mano ai marchi stranieri. Ci sarà un motivo se tirano gli altri modelli e non quelli della Fiat. Sarò demagogico, ma dico quello che tanti pensano: non sarebbe forse il caso di ridurre lo stipendio a Marchionne invece di tagliare le pause agli operai?
Se si accetta lo scambio tra diritti e occupazione, si imbocca una strada senza uscita. Solo pochi mesi fa il Ministro Tremonti affermò che il Paese non può permettersi la normativa sulla sicurezza sul lavoro, proprio in ragione di quella competitività che va conseguita ad ogni costo. Bisogna dirlo chiaro: la conseguenza è che si mette in discussione la vita stessa dei lavoratori. E forse non ci si pensa abbastanza quando si esasperano ritmi e condizioni di un lavoro che – come ammette Paolini – è già abbastanza duro. Certamente non lo ha pensato l’ad di Fincantieri Bono, che qualche settimana fa, dopo un grave incidente sul lavoro, ne ha attribuito la causa solo alla vittima e ha assimilato infortuni e malattie professionali all’assenteismo. Concludendo che la bassa produttività degli operai italiani potrebbe indurre Fincantieri a delocalizzare.
Non è stata una semplice caduta di stile, ma una caduta di civiltà. Si sta diffondendo infatti una mentalità che considera il lavoratore un mero ingranaggio della produzione e il rapporto di lavoro una mera questione commerciale, senza alcuna attenzione per la persona, alla sua sicurezza e alla sua dignità. Paolini sembra sostenere che tutto ciò è in qualche modo inevitabile, sebbene sbagliato, e che se si rifiuta la logica della società iperliberista bisognerebbe lottare per un’alternativa. Forse qualcuno non se ne è accorto, ma la Cgil si batte da tempo per modificare questo modello di società che ha surrogato i valori coi consumi, le regole con la prepotenza del più forte, concentrandosi sul benessere individuale e abdicando al futuro per idolatrare il presente. E porta questo suo impegno e questa passione nelle vertenze, piccole e grandi, come quella dei lavori usuranti, sulla quale col Governo Prodi fu raggiunto un accordo mai attuato dall’attuale esecutivo.
Dunque non siamo rassegnati. E si tranquillizzino quanti ci accusano di antagonismo sociale: vogliamo soltanto che il lavoro torni ad essere protagonista, come dice la Costituzione : è istruttivo rileggersi gli articoli che lo riguardano. A meno che non si decida che vanno cambiati i fondamenti della Carta. Infine, vogliamo evitare che la crisi si scarichi esclusivamente sui lavoratori, aggiungendo al danno la beffa di vedere arricchiti coloro che hanno concorso a provocarla. Questo sì che sarebbe davvero inaccettabile.
Franco Belci, segretario generale Cgil FVG