“Trieste libera”, la risposta sbagliata ai temi posti dalla crisi
Le dimensioni assunte dal movimento “Trieste libera” interrogano politica, istituzioni, ma anche la Cgil sulle ragioni che hanno mobilitato tante persone e sulla natura di questa voglia di partecipazione che si condensa nella volontà di separarsi dall’Italia.
Penso che si tratti innanzitutto di una reazione alla crisi economica, ma anche a quella della politica, incapace di dare risposte incisive alla prima. Di una ribellione di fronte alla disattenzione alle condizioni concrete delle persone che lottano per arrivare alla fine del mese, ai dati drammatici della disoccupazione, alla perdita del potere d’acquisto delle famiglie, alla pressione fiscale sempre più intensa. E di fronte all’autoreferenzialità di chi sembra legare il futuro del Paese non alla capacità di ricostruirne il tessuto economico e democratico, pericolosamente dissestato, ma al voto della Giunta per le immunità su Berlusconi o alla data di un Congresso.
Si tratta della stessa rabbia che il sindacato intercetta ogni giorno sui posti di lavoro, ma che cerca di trasformare in una volontà collettiva di raddrizzare il Paese, recuperando coesione, giustizia sociale, capacità di sviluppo. Lo dico innanzitutto ai nostri iscritti che hanno partecipato alla manifestazione di domenica: i problemi non si affrontano né si risolvono attraverso le scorciatoie identitarie che per loro natura appiattiscono la realtà fino a farne perdere i contorni. Per questo penso che le rivendicazioni del movimento abbiano bisogno di risposte di merito.
Non mi soffermo sulle questioni di diritto internazionale, sulle quali peraltro il Tar ha dato una prima risposta. Voglio però richiamare alla memoria il fatto che l’individuazione del Territorio libero di Trieste (Tlt) aveva la funzione di depotenziare le aspirazioni jugoslave su Trieste attraverso un artificio giuridico, non a caso mai applicato. Né si può dimenticare, senza far torto alla storia, che la gran parte della città allora si espresse, anche con manifestazioni di massa e con il sacrificio di vite umane, per l’immediato ritorno alla sovranità italiana.
Mi preme però soprattutto affrontare profili concreti e immediati, che hanno precise relazioni con la solidarietà collettiva, col diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla pensione per i quali la Cgil si batte da più di 100 anni e che hanno cementato l’unità del Paese e fatto crescere la democrazia. E’ una storia della quale siamo orgogliosi, che ha unito braccianti del Sud, mezzadri del centro e operai del Nord e che vogliamo consolidare, non abbandonare. La condizione del lavoro non conosce confini e solo a livello nazionale (ed ormai europeo) si possono tutelare i diritti collettivi, applicare la giurisdizione del diritto del lavoro e organizzare la contrattazione. La stessa cassa integrazione, che riguarda purtroppo tanti lavoratori triestini, vive sulla fiscalità generale e non sarebbe realizzabile in dimensione locale.
Ma penso anche alle crisi industriali: qualsiasi soluzione per la Ferriera passa ad esempio per un quadro di rapporti tra Governo, Regione, Comune, attuale proprietà e acquirente. E anche se si dovesse chiudere lo stabilimento, la città da sola non sarebbe mai in grado di affrontare i costi della bonifica. La dimensione nazionale è indispensabile del resto per garantire il welfare in tutte le sue forme. Nessuna città italiana, tranne forse la ricca Milano, sarebbe mai in grado di essere autosufficiente nell’astratta ipotesi di trattenere sul territorio tutte le tasse versate. Tantomeno potrebbe esserlo una città di 220mila abitanti, con un sistema produttivo ridotto all’osso, nella quale lavorava, prima della crisi, il 44% della popolazione, mentre la parte restante era costituita da bambini, studenti e pensionati. E nella quale oggi per ogni cento over 15 vi sono 246,29 over 65. Tasso che, secondo i dati del Comune, nel 2026 salirà a 284,57.
Chi pagherebbe le pensioni? Come potremmo permetterci due ospedali con tre presìdi (Cattinara, Burlo, Maggiore) e un’Azienda per i servizi territoriali, con migliaia di dipendenti, se solo si pensa che per la Sanità la Regione Fvg spende la metà del proprio bilancio? Come ci garantiremmo l’attuale livello di servizi scolastici, dagli asili nido all’università, e chi pagherebbe gli stipendi? Chi darebbe lavoro alle migliaia di persone impiegate negli uffici periferici dello Stato o in quelli della Regione? Non si possono evitare le risposte a questi interrogativi. Altrimenti si finisce per sollecitare vie di fuga che allontanano la soluzione dei problemi concreti di oggi e di domani.
Spero dunque che la volontà di partecipazione e di protagonismo espressa nella manifestazione di domenica scorsa si indirizzi verso l’elaborazione di proposte per risolvere la crisi della città, trovi sbocchi diversi dalla volontà di isolamento e da un’identità che non può essere costruita sulla nostalgia di ciò che non è stato. Il problema infatti non è battersi per nessuna Italia, ma per un’Italia migliore.
Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg