Articolo 18, l’ennesimo passo falso del Governo

Trovo condivisibili i ragionamenti che nei giorni scorsi Roberto Muradore ha sviluppato sul “Messaggero”. Ritengo anch’io improvvido il tentativo del Governo Monti di restringere il campo della rappresentanza delle grandi confederazioni che propongono il modello, altrove sconosciuto, del “sindacato generale”. Cioè di un sindacato che difende i diritti e gli interessi di tante categorie di lavoratori: senza la costante ricerca di un punto di equilibrio, quei diritti e quegli interessi rischierebbero di confliggere tra di loro. Di un sindacato che si sforza di rappresentare i lavoratori e i pensionati anche nella loro comune condizione di cittadini e di utenti dei servizi. E che per questo vuole occuparsi di politiche fiscali e di welfare, perché redditi e pensioni si possono sostenere in diversi modi: o con i soli aumenti salariali, o con un mix tra questi ultimi, una minore pressione fiscale e/o un minor costo della sanità e dei servizi.
La politica dei redditi promossa da Ciampi negli anni 90 è stata possibile proprio perché si basava sul riconoscimento di questo ruolo generale del sindacato confederale italiano e sulla sua capacità di farsi carico, pur dal proprio fronte di rappresentanza, degli interessi generali del Paese. L’alternativa proposta da Monti spinge invece di fatto verso la corporativizzazione che per sua natura non si fa carico di equilibri e compatibilità di bilancio, consegnando ai rapporti di forza o alla particolarità delle mansioni e delle funzioni la capacità contrattuale delle categorie e mettendo in discussione la coesione sociale. È un pessimo segnale, in questa prospettiva, la retromarcia sulle liberalizzazioni di fronte alle pressioni delle lobbies.
Anche sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il Governo si è mosso molto maldestramente. Se veramente vogliamo uscire dai tabù, occorre abbandonare gli slogan e cominciare a parlare di merito. La tutela individuale del lavoratore contro i licenziamenti discriminatori o privi di giusta causa è disciplinata dagli artt. 15, 16 e 18 dello Statuto. L’articolo 15 definisce nulli i licenziamenti discriminatori ispirati dalla affiliazione o dall’ attività sindacale, dall’ appartenenza politica, religiosa, razziale, di lingua, di genere; dall’ orientamento sessuale, dalle convinzioni personali, dalla condizione di disabilità. L’art. 16 definisce la pena previo accertamento dei fatti. L’art. 18 prevede che il licenziamento di un singolo lavoratore che non sia per giusta causa o giustificato motivo comporta il reintegro del lavoratore colpito da discriminazione.
Gli articoli sono correlati in quanto la mancanza di motivazione nel licenziamento può nascondere, appunto, una di quelle discriminazioni, posto che è arduo pensare che un imprenditore dichiari esplicitamente di licenziare un dipendente perché ha scoperto che è omosessuale. Ed è assolutamente fuorviante sostenere che non si possano licenziare in questo modo assenteisti o fannulloni e che non si possa procedere per crisi aziendali, come purtroppo constatiamo ogni giorno. Nel 90% dei casi, poi, è il lavoratore stesso a non chiedere, per ovvi motivi, il reintegro e a optare per un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale. Tanto meno l’art. 18 può costituire un deterrente per le assunzioni: lo sostengono del resto non solo Cgil, Cisl e Uil, ma, oltre agli imprenditori non obnubilati da ideologie neopadronali, Unioncamere e Confcommercio.
Se si vuole affrontare seriamente e dal verso giusto il problema del mercato del lavoro, occorre invece intervenire subito su 3 direttrici: la drastica riduzione delle tipologie contrattuali che producono precariato, l’appesantimento fiscale e contributivo dei contratti a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato e soprattutto la definizione di un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che sostenga i giovani nel passaggio tra le varie esperienze lavorative e tuteli la nuova categoria dei lavoratori anziani. Temo infatti di essere facile profeta nel prevedere che le aziende, dopo aver chiesto che fosse innalzata l’età pensionabile, si accorgano che da un tornitore di 65 anni (come da un infermiere, da un facchino, da un autista) non si possono pretendere le performance di uno di 30 e cerchino di espellere dal mercato del lavoro quei lavoratori, che non avrebbero più opportunità di reinserimento. Con queste tipologie di intervento, e non certo con l’abolizione dell’art. 18 si tutelerebbero padri e figli senza contrapporne strumentalmente le condizioni.

Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg