Contrattazione, i diritti non sono una variabile dipendente
Non sono abituato a polemizzare a mezzo stampa con le posizioni e le scelte delle altre organizzazioni sindacali, che rispetto anche quando non le condivido. Capisco che non si possa chiedere reciprocità: ogni botte dà il vino che ha. Non è però accettabile impostare polemiche pretestuose che travisano i fatti e manomettono le posizioni della Cgil.
Nel mazzo di una generale invettiva contro “rappresentanze politiche, economiche e sindacali afasiche rispetto al mondo del lavoro e dell’economia reale”, con particolare riferimento al settore manifatturiero, il segretario generale della Cisl di Udine ha ritenuto di inserire anche la Fiom e la Cgil. La prima, perché si sarebbe «attardata a proclamare astrattamente condivisibili principi, valori e soprattutto diritti che per essere esercitati e fruiti necessitano di un’economia che funziona». E la Cgil regionale per aver ceduto a logiche corporative proponendo una riedizione del «salario variabile indipendente» per avere un facile consenso all’interno del comparto unico. Tesi un po’ ardite anche per chi voglia praticare una polemica del tutto estemporanea, avulsa da ogni riferimento concreto a fatti e posizioni e che si traduce in interpretazioni del tutto infondate.
La Cgil non ha mai considerato il processo di perequazione tra il personale degli enti locali e quello regionale una “variabile indipendente” e le categorie di Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto unitariamente, anche se con momenti di forte dialettica, contratti collettivi che tenevano presente il quadro delle compatibilità economiche, puntualmente registrati dalla Corte dei Conti. Libero Muradore di considerare quegli aumenti troppo alti, ma avrebbe dovuto avere il coraggio di venirlo a dire a suo tempo nelle assemblee dei lavoratori convocate unitariamente. Il coraggio postumo è sempre sospetto.
Oggi, piaccia o no, il comparto unico può diventare un valore aggiunto in vista di un riassetto complessivo del tessuto istituzionale della regione: ma lo può fare proprio perché trattamento economico e istituti giuridici sono omogenei consentendo di utilizzare in maniera intercambiabile tutte le professionalità e favorendo quei processi di mobilità che la riforma potrà richiedere. In quanto alla supposta disattenzione della Cgil per il settore manifatturiero, non posso certo obbligare il segretario della Cisl a leggere le nostre proposte, seguire le nostre iniziative o partecipare alle nostre assemblee. Se però gli serve un aggiornamento può consultare il nostro sito istituzionale.In ogni caso colgo l’occasione per invitarlo il 30 ottobre a un’iniziativa sull’industria in Regione che faremo a Pordenone.
In quanto ai principi, ai diritti e ai valori – che non sono diversi fra Cgil e Fiom – non credo si possa condividerli solo “astrattamente” né che possano sottostare a una specie di geometria variabile per la quale si esercitano solo se l’economia funziona. L’art. 36 della Costituzione sancisce, molto concretamente, il diritto ad una retribuzione capace di garantire «in ogni caso» la libertà e la dignità di ciascun lavoratore e della sua famiglia. Se noi accettassimo il relativismo prefigurato dal segretario della Cisl, essi si trasformerebbero da principi costituzionali da sostenere e difendere a variabili legate ai cicli del capitalismo.
Passo dopo passo, visto che i diritti non sono facili da riconquistare, si arriverebbe a considerare la retribuzione come il prezzo minimo che si riesce ad ottenere sul mercato per vendere un lavoro ridotto a pura merce che sempre più spesso non consente di superare la soglia della povertà. Insomma, di fronte alla crisi economica, le ragioni del mercato si stanno configurando come una specie di diritto naturale al quale vanno sacrificate quelle del lavoro e, in ultima analisi, della democrazia.
Si tratta, né più e né meno, delle ragioni che hanno indotto Marchionne a proporre gli accordi di Pomigliano e Mirafiori: meno diritti in cambio del mantenimento dell’ occupazione e fuori dalle fabbriche chi non condivide questo mantra. Oggi si può constatare come lo scambio non sia praticabile e come ne siano usciti vulnerati i diritti e la democrazia. Forse sarebbe il caso che i tanti sindacalisti e politici che allora invitarono a votare sì trovassero il modo di scusarsi coi lavoratori.
Franco Belci, segretario generale Cgil FVG