Contrattazione, prima di tutto tutelare i salari
Alcune affermazioni fatte dal ministro Sacconi in una recente intervista rilasciata a Repubblica prefigurano un nuovo modello di relazioni sindacali, basata sulla subalternità della rappresentanza dei lavoratori, e una vera e propria torsione dei meccanismi della democrazia nel mondo del lavoro.
Le prescrizioni sono esplicite: 1) occorre passare “dal conflitto distributivo a una distribuzione della ricchezza attraverso la partecipazione”; 2) è necessario superare “tutte le forme di democrazia diretta” per essere competitivi con Paesi che hanno “processi decisionali velocissimi” quali Brasile, Cina, Russia. 3) è urgente mettere da parte la funzione “solidaristica” del salario. 4) è indispensabile che i lavoratori condividano “la fatica per uscire dalla crisi per condividere i risultati quando arriveranno”.
Si tratta di una logica stringente che parte da un presupposto: il lavoro non è il fondamento della produzione (art. 1 della Costituzione), ma ne è strumento e dunque non può condizionarne modalità e obiettivi. Da questo punto di vista la dialettica fisiologica tra gli interessi del datore e del prestatore di lavoro costituisce un impedimento. Serve quindi una rappresentanza dei lavoratori che vi si sottragga, legittimandosi non attraverso la verifica della rappresentatività, ma attraverso la “collaborazione” col potere economico e quello politico. In questo contesto il salario deve essere legato prevalentemente alla produttività e la sua “funzione solidaristica” deve essere ridotta al minimo.
Non so cosa intenda esattamente il ministro, ma temo che si riferisca al secondo comma dell’ art. 36 della Costituzione che attribuisce alla retribuzione la funzione di “assicurare, in ogni caso” al lavoratore e alla famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”. Un principio rispetto al quale stride la condizione di tante famiglie che non arrivano alla quarta, ma ormai neanche alla terza settimana. A questo problema vanno date soluzioni certe e generalizzate, attraverso il recupero del potere d’acquisto di salari e pensioni: è questa la funzione del contratto nazionale. Infatti la contrattazione integrativa si svolge circa nel 30% delle aziende, e la produttività non coincide con la capacità o la volontà del lavoratore di lavorare di più e dunque al diritto di guadagnare di più. Infatti, a parità di ore lavorate in due aziende che fanno lo stesso prodotto, produrrà di più il lavoratore la cui azienda ha investito di più in capitale produttivo, ricerca e sviluppo, innovazioni organizzative, formazione.
Per chiudere il suo ragionamento, il ministro spiega che il nuovo modello contrattuale serve per far condividere ai lavoratori i sacrifici necessari per superare la crisi, in modo da cogliere “i risultati, quando arriveranno”. Forse non ha letto i dati sulla disoccupazione e sulla cassa integrazione che attestano come i lavoratori stiano già pagando duramente gli effetti della crisi. O si vuole fargliela pagare due volte? Proprio per le caratteristiche “padronali” del suo ragionamento, stupisce che nessuno si sia sentito in dovere di replicare. Il segretario nazionale del Pd ha preferito suggerire alla Cgil di “accettare le sfide dell’innovazione riformista” che sarebbero rinvenibili nell’accordo, aggiungendo che se ciò avvenisse ci sarebbero “tutte le condizioni per un unico grande sindacato plurale”.
Seguo con rispetto i travagli del Pd e, lo dico sommessamente, preferirei che prima di dare indicazioni alla Cgil, individuasse la propria concezione di “innovazione riformista”, anche a beneficio dei suoi elettori. I termini, se non accompagnati da alcuna specificazione, non sono in sé positivi: infatti sono, a pieno titolo, “riforme”, anche quelle di Berlusconi. Essi acquistano pregnanza quando sono riferiti ad un orizzonte di principi, valori, interessi collettivi.
Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg