Gabbie salariali, perché la Cgil dice no
La proposta delle “gabbie salariali” non ha alcun senso nell’Italia di oggi. Il Sud è già penalizzato dalla legge del mercato e dagli aspetti di arretratezza che nessuno dei Governi in carica, almeno dagli anni ’90, ha saputo risolvere. Scarsi insediamenti industriali, scarsa competitività, servizi inefficienti, costi sanitari più alti del Nord (lo stesso farmaco costa, da Trieste a Palermo, anche il 30% in più, causa l’entità del ticket). E ancora: i costi della diffusa criminalità organizzata, con tangenti e appalti pilotati, il lavoro nero, il costo dell’abitazione, quello del depauperamento dovuto alla migrazione al Nord (700.000 persone dal 2000, praticamente una città delle dimensioni di Firenze). Infine, gli stipendi che sono già più bassi del 15%, secondo una rilevazione della Banca d’Italia di un paio di settimane fa.
Il problema non è dunque quello di differenziare per legge gli aumenti salariali tra sud e nord, ma di aumentare il potere d’acquisto di tutti i salari per sostenere i consumi e uscire anche in questo modo dalla crisi. L’introduzione delle gabbie per legge, oltre ad alimentare un caos contrattuale generalizzato, ingestibile da imprese e sindacati, segnerebbe un’inaccettabile invasione di campo in un ambito che appartiene alla contrattazione tra le parti. Se lo Stato vuole intervenire, lo faccia piuttosto utilizzando la leva fiscale per incentivare la contrattazione decentrata.
Il sindacato contrasterà in ogni modo qualsiasi tentativo di comprimere i salari, che sono già troppo bassi, al Sud come al Nord. Siamo invece favorevoli a sviluppare tutte le forme di contrattazione decentrata che possano consentire di remunerare maggiormente la produttività del lavoro, privato e pubblico, garantendo anche una migliore tenuta dei livelli retributivi rispetto al costo della vita. Un esempio concreto in questo senso è il comparto unico regionale del pubblico impiego: se
Franco Belci, segretario generale Cgil FVG