Le nuove sfide per l’autonomismo




Ho apprezzato le considerazioni di Roberto Dominici sulla visita in Friuli del Presidente Napolitano comparse sul Messaggero Veneto del 23 luglio scorso. Anch’io sono convinto che la valorizzazione delle autonomie e delle loro competenze di autogoverno possa sollecitare la partecipazione e la responsabilità delle comunità locali, rafforzando il percorso di riconoscimento del cittadino nell’unità nazionale.
Del resto – come ha ricordato Napolitano – proprio la ricostruzione post terremoto ha costituito un modello altissimo di efficace e solidale collaborazione tra Stato, Regione, ed Enti locali. E non c’è dubbio che in quel modello abbiano avuto un gran peso i meccanismi di aggregazione e solidarietà sollecitati dalle tradizioni storiche, linguistiche e culturali della comunità friulana, nelle sue diverse articolazioni.  Concordo con Dominici anche quando parla della necessità di un Friuli non chiuso in se stesso, ma capace di rapporti aperti e costruttivi, pur nella conservazione e valorizzazione delle sue specificità, a cominciare dalla lingua.
Credo, da parte mia, che il tema non possa essere declinato soltanto sul versante culturale ed istituzionale, ma debba misurarsi con le problematiche inedite che la crisi pone. I suoi effetti infatti si fanno sentire su tutti i terreni, dall’industria alla cultura, e colpiscono indistintamente lavoratori e di tutta la regione, dal mare alla montagna. Cambiano improvvisamente e spesso radicalmente tenore e qualità della vita di tante persone, disgregano progetti individuali e collettivi, distruggono i sogni dei giovani.
In questa drammatica situazione il Friuli può e deve recuperare il valore aggiunto dell’esperienza della ricostruzione, e proporlo a tutta la regione come punto di riferimento, come possibile strada per uscire dalla crisi. Nessuno infatti né può uscire per proprio conto. La soluzione passa per un percorso condiviso volto a costruire un sistema integrato capace di recuperare una dimensione verticale che dal mare arrivi alla montagna.
È necessario perciò consolidare ed estendere il tessuto produttivo  mettendo in campo una politica industriale che rafforzi e valorizzi il legame delle imprese con il territorio. Vanno incentivati i processi di aggregazione delle piccole aziende e sostenuti gli investimenti per l’innovazione e la ricerca nei confronti di quelle che si impegnino a utilizzare questa via per qualificare e mantenere i livelli occupazionali.
È indispensabile quindi che la Regione metta in campo una politica industriale degna di questo nome, oltre a forme di coordinamento e sinergie forti nelle istituzioni che operano nel ciclo della conoscenza, a cominciare dalle due Università, per mettere a disposizione del territorio – di tutto il territorio – idee e progetti. 
Le imprese, da parte loro, devono impegnarsi a mantenere i livelli occupazionali e a non delocalizzare la produzione, investendo sull’innovazione di prodotto e di processo, e a ricercare una diversificazione dei mercati di riferimento, così come, con una scelta coraggiosa, ha saputo fare la Fantoni.
Credo che in questa prospettiva anche dall’autonomismo possa venire un contributo importante di esperienze e di idee se – anche nella prospettiva, condivisibile, dell’autogoverno e del decentramento – saprà far prevalere il valore della coesione sulla tentazione del frazionamento istituzionale o, ancora peggio, identitario, molto lontano da quell’immagine di apertura e solidarietà costruttiva evocato da Dominici come caratteristica del movimento.

Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg