Le ragioni dello sciopero

Inopportuno. Sbagliato. Irresponsabile. Sono i giudizi di alcuni esponenti politici sullo sciopero proclamato per il 6 settembre dalla Cgil, per lo più motivati con i richiami alla coesione del Paese di fronte a una contingenza drammatica e all’unità delle forze sociali.
Lasciamo stare invece i giudizi che provengono dai rappresentanti di un Governo che, esso sì irresponsabile, ha negato per tre anni l’evidenza della crisi e la affronta oggi in tutta fretta e con una congerie di provvedimenti confusi e pasticciati, che cambiano di giorno in giorno. Lasciamo stare in particolare quelli del ministro Sacconi, che opera esplicitamente per dividere il mondo del lavoro e isolare la Cgil, al punto di inserire nella manovra una norma che stravolge l’accordo sulla contrattazione e sulla rappresentanza raggiunto faticosamente meno di due mesi fa da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria.
Cercherò di rispondere solo alle critiche avanzate nei confronti dello sciopero anche da chi ha espresso un giudizio negativo sulla manovra. Ora, fin dalle audizioni nelle Commissioni parlamentari la Cgil aveva accompagnato le sue valutazioni a una proposta di contromanovra a saldi immutati. Non contestavamo dunque né la necessità né l’entità della manovra, ma la sua incoerenza, la sua scarsa qualità e la sua impostazione iniqua, che spostava sui redditi da lavoro dipendente e da pensione – direttamente o attraverso i tagli agli Enti locali – la gran parte dei sacrifici necessari a salvare il Paese dalla bancarotta.
Non ho lo spazio per riassumere nel dettaglio le nostre proposte. Ricordo solo che chiediamo un piano strutturale di lotta all’evasione, mentre dei 48 milioni della manovra solo 1 proviene da questo versante. Proponiamo un’imposta ordinaria sulle grandi ricchezze per la quota che eccede gli 800 mila euro, una sui grandi immobili dello stesso valore e l’aumento della tassa di successione. Un contributo di solidarietà sopra i 90 mila euro su tutti i redditi (non solo su quelli da lavoro dipendente). La rimodulazione dei fondi grandi opere, convertendoli dagli interventi insostenibili (Ponte sullo Stretto) a quelli cantierabili. Infine una corretta riduzione dei costi e dei privilegi della politica, e una semplificazione istituzionale che non restringa il perimetro della democrazia. Delle nostre proposte, l’unica recepita riguarda l’innalzamento alla media europea della tassazione sulle rendite finanziarie.
Sono in tanti, del resto, a contestare la manovra: le forze politiche nelle sedi parlamentari; i presidenti delle regioni nel confronto col Governo; i sindaci hanno scelto la piazza, senza che nessuno li accusasse di essere irresponsabili. Una grande organizzazione sociale ha non solo il diritto, ma il dovere di dar voce al disagio e alla rabbia di quelli che rappresenta. Di dare a quei sentimenti espressione collettiva, direzione di marcia ed obiettivi, cercando di creare le condizioni per un cambiamento, attraverso le modalità previste dalla Costituzione: cioè con l’esercizio del diritto di sciopero, con il protagonismo dei lavoratori, che consapevolmente rinunciano a un giorno di stipendio per difendere la loro dignità e i loro diritti.
Non ci incantano i lamenti di chi, dopo aver detto bugie per tre anni, aver portato il Paese sull’orlo del baratro e aver fatto tre manovre in un mese, si strappa ora i capelli perché per un giorno il Paese si fermerà. Quanto ai richiami all’unità sindacale, quell’unità l’avevamo raggiunta il 28 giugno. È gravissima la responsabilità di chi ha voluto romperla e di chi ha subito quella volontà, rinunciando ancora una volta, dopo averlo rivendicato a parole, all’autonomo esercizio del proprio ruolo contrattuale.
Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg

Le ragioni dello sciopero

di Franco Belci, segretario generale Cgil FVG
Il segretario regionale della Cisl Giovanni Fania ha ragione quando – in un suo recente intervento sul Messaggero Veneto – giudica i tagli sulla politica soltanto simbolici rispetto all’entità e all’equilibrio della manovra e rispetto a quelli che colpiranno i servizi sanitari e scolastici, i trasporti, l’università, la cultura. E ha ragione da vendere anche quando reclama una sforbiciata al pletorico tessuto istituzionale del Paese e della Regione.
Non capisco però per quale motivo si autocensuri e ritenga di non intervenire sulle altre poste di una manovra che peraltro giudica «assolutamente da migliorare nell’ottica di una maggiore equità e di un maggiore rigore». Cioè, se capisco bene, allo stato attuale iniqua e sperequata. Infatti essa è costruita attraverso un mix di tagli (60%) e entrate (40%). I tagli colpiscono il pubblico impiego con il blocco dei contratti, del turn-over, il mancato rinnovo dei contratti del personale precario e quindi con un abbassamento complessivo dell’occupazione e della qualità dei servizi.
Le Regioni avranno 10 miliardi di minori entrate, i Comuni 4, le Province 1. I Presidenti delle Regioni, con l’isolata eccezione di Tondo, più realista del re,  protestano perché saranno a loro volta costretti ad abbassare il livello dei servizi o a mettere, quali esattori, le mani in quelle tasche che il governo dice di non voler toccare. E analoghe, pesanti critiche vengono sollevate dall’Anci.
Le entrate (8,8 mld) sono affidate alla lotta all’evasione. Con quale credibilità è facile immaginare, da parte di un Governo guidato da un premier che ripetutamente ha definito giustificabili l’evasione e l’elusione fiscale (ricordo, per tutte, la performance del 2004 alla festa della Guardia di Finanza, cioè di coloro che dovrebbero perseguire gli evasori ). Del resto un condono non manca neanche all’interno della manovra: quello sulle “case fantasma”, peraltro tutt’altro che tali, in quanto individuabili attraverso un confronto tra i dati del catasto e quelli delle rilevazioni aeree: sarebbe dunque sufficiente applicare la legge e le sanzioni da essa previste, che porterebbero risorse ben maggiori del condono. In quanto alla tracciabilità dei movimenti, frettolosamente cancellata dal Governo Berlusconi all’atto del suo insediamento, è stata si ripristinata, ma portata per i pagamenti dai 5 ai 12 mila euro. Come dire: sotto quella cifra, liberi tutti.
Nessun aumento invece delle aliquote sulle rendite finanziarie e su quelle immobiliari, nessuna tassazione sui grandi patrimoni (come hanno fatto tutti i Paesi europei), niente sugli utili delle banche, come ha fatto perfino il Portogallo. In compenso la scure sulle pensioni dei lavoratori dipendenti e autonomi, con l’inaccettabile gradone per le donne della pubblica amministrazione e l’innalzamento a 70 anni dell’età pensionabile dei giovani ai quali peraltro si negano possibilità occupazionali. Si tratta di dati oggettivi, che dimostrano in modo inequivocabile come a pagare sia, come sempre, il lavoro dipendente e, stavolta, pure quello autonomo. E come siano colpiti, ancora una volta, i settori più deboli e poveri del tessuto sociale: giovani, precari, donne, madri sole, anziani.
Di fronte a tutto questo Fania ci dice che la Cisl non protesterà ma «resterà ai tavoli» per confrontarsi «responsabilmente» col Governo. Impresa apprezzabile, ma disperata. Del resto Bonanni il suo giudizio l’ha già dato, sostenendo all’assemblea nazionale dei delegati della Cisl che, grazie al suo apporto, il welfare non è stato toccato. Parere alquanto diverso da quello dei presidenti delle Regioni di Centro Destra e Centro Sinistra (Tondo escluso) e da quello, mi par di capire, dello stesso Fania. In quanto ai supposti tavoli, lo stesso Bonanni ha spiegato che «la nostra non è stata una trattativa, ma il risultato di contatti costanti con il Governo. Quello che un sindacato deve fare, facendo pesare il proprio prestigio e la propria influenza» ( La Repubblica , 6 giugno 2010). Dunque, par di capire, più che di tavoli di trattativa, si tratta di tavoli molto esclusivi e ristretti di ministeri o ristoranti.
È su questa concezione del sindacato che la distanza con Bonanni è davvero grande. Noi continuiamo a credere – anche e anzi a maggior ragione in tempi di crisi – che vadano rispettati i fondamentali del sindacato: prima le piattaforme rivendicative, poi la trattativa, e se questa si conclude con un accordo la verifica democratica coi lavoratori. Preferiamo giocare in altro modo il nostro prestigio, parlando al Paese nelle piazze e spiegando le nostre ragioni. Dunque il 25 sciopereremo contro una manovra iniqua e sbagliata (Draghi ha spiegato che comporterà la perdita di mezzo punto di Pil), ma anche per consegnare ai lavoratori e al Paese l’immagine di un sindacato con la schiena dritta, mai rassegnato, fondato sulla trasparenza delle relazioni, sulla democrazia, sulla verifica della rappresentatività. Mi auguro di cuore che un domani il più vicino possibile si possa condividere nuovamente questo modello con la Cisl.