Pensioni, tutti gli errori della manovra

L’intervento di Stefano Allievi comparso sul “Piccolo” del 16 dicembre suggerisce alcune considerazioni sui provvedimenti del Governo sulle pensioni. Mi pare d’obbligo partire dal passaggio del discorso programmatico nel quale il Presidente del Consiglio riconosceva come gli interventi sul regime pensionistico a partire dalla riforma Dini lo abbiano reso “tra i più sostenibili in Europa e tra i più capaci di assorbire eventuali shock negativi.
“Già adesso – ha detto il premier – l’età di pensionamento nel caso di vecchiaia, tenendo conto delle cosiddette finestre, è superiore a quella dei lavoratori tedeschi e francesi”. I problemi derivano, secondo Monti, “da ampie disparità di trattamento tra diverse generazioni e categorie di lavoratori, nonché da aree ingiustificate di privilegio”. Condivido al 100% queste affermazioni. Peccato che esse non abbiano trovato traduzione nei provvedimenti assunti. Innanzitutto il blocco delle indicizzazioni costituisce una misura molto lontana dall’equità cui Monti si è richiamato. Inizialmente colpiva tutti i trattamenti. Ora, dopo lo sciopero di  Cgil, Cisl e Uil e gli interventi in Parlamento, investe le pensioni sopra i 1.400 euro lordi (dunque dai 1.100 netti in su). A nostro giudizio la correzione non è sufficiente, anche perché il livello di tassazione sulle pensioni è davvero pesante: sui 146 miliardi di entrate fiscali all’anno, ben 44,4 arrivano dai 15,3 milioni lavoratori a riposo. Se si prende il reddito medio del pensionato italiano, pari, lo scorso anno, a meno di 14mila euro lordi e vi si applicano aliquote e detrazioni, rimangono al netto circa 11.600 euro. In Germania, Francia, Spagna non vi è prelievo fiscale, in Gran Bretagna esso ammonta all’1,5% medio. Solo in Svezia il prelievo è più alto, ma il livello dei servizi è molto più inclusivo.
Dunque si rischia contemporaneamente di creare una povertà diffusa, tanto più che le pensioni dei padri contribuiscono spesso ad integrare le scarsissime entrate dei figli, e di comprimere ulteriormente i consumi anche sui generi di prima necessità. In secondo luogo il provvedimento cambia di colpo i progetti di vita di alcune categorie di persone per la cieca automaticità dell’azione amministrativa, che distingue le condizioni dei singoli in base alle date e non alle situazioni: un giorno di differenza rischia di valere due anni in più di permanenza al lavoro. In terzo luogo si affronta la questione delle pensioni di anzianità senza alcuna distinzione tra i percorsi lavorativi. La Cgil ha sempre affermato che andavano tutelate quelle dei lavoratori precoci, già oggi nella situazione di dover attendere non i 40 anni di contributi, ma i 41 e tre mesi. Sono persone che hanno iniziato a lavorare tra i 15 e i 18 anni, figli quasi sempre di famiglie a basso reddito che avevano bisogno che anche i ragazzi contribuissero a elevarlo appena assolto l’obbligo scolastico. Crediamo che la società sia in debito nei loro confronti e che non sia uno scandalo se ai 15enni di allora, spesso impegnati in gravosi lavori manuali, viene consentito di andare in quiescenza a 56 anni di età. Tanto più che il numero è ridotto e non andrebbe sicuramente ad intaccare i saldi complessivi. In ogni caso, con scelte meno frettolose si sarebbe potuto distinguere tra lavoro e lavoro: non è la stessa cosa operare su un tornio o in un ufficio.
E arriviamo – last but not least – alla questione del rapporto tra generazioni. Avevamo chiesto di destinare ai giovani i risparmi ricavati dagli interventi sul sistema pensionistico, per favorire la stabilizzazione dei loro rapporti di lavoro o per contribuire ai loro trattamenti pensionistici, per i quali Cgil, Cisl e Uil avevano concordato nel 2007 con Prodi una copertura pari al 60% dell’ultima retribuzione. Neanche in questa direzione ci si è voluti muovere, perché, appunto, l’obiettivo era solo fare cassa. Ma il rigore non può valere solo per i giovani, i lavoratori dipendenti e i pensionati e risparmiare evasori, proprietari di grandi immobili e titolari di grandi rendite. Non può fermarsi davanti alle resistenze delle lobby contro le liberalizzazioni, non può rinunciare ai proventi dell’asta per le frequenze.
Crescita, equità, rigore, aveva detto Monti. Delle prime due vi sono poche tracce. Il terzo è prevalentemente a carico dei settori più esposti della società. Per questo abbiamo scioperato. E se questo sarà l’approccio anche alle altre partite aperte, sciopereremo ancora.
Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg