Referendum sull’acqua, le ragioni dei sì
L’acqua ai privati? Chi difende il decreto Ronchi, e dice no alla sua abrogazione, sostiene che le cose non stanno così. E precisa che ad essere privatizzata dal decreto non è l’acqua, bensì la sua gestione. In realtà, però, non è questo il nocciolo della questione. Indipendentemente dall’oggetto della privatizzazione, infatti, è indubbio che l’ingresso del privato nel settore dei servizi a rete determina un ribaltamento di prospettiva, sostanziale e non formale: l’accesso a quello che dovrebbe essere un bene pubblico, infatti, viene regolato da una logica di mercato, dove l’obiettivo primario non è più quello l’accesso universale al servizio, ma quello del profitto.
Altrettanto indubbio è che il processo di privatizzazione non è partito col decreto Ronchi, ma ha radici lontane. Questa consapevolezza, però, non toglie peso alla battaglia referendaria. Tutt’altro: i due referendum sull’acqua di domenica e lunedì, infatti, possono segnare l’avvio di un’inversione di tendenza, il ribaltamento di quel modello di pensiero dominante secondo il quale il privato garantisce sempre e comunque una maggiore efficienza rispetto al pubblico. Questo non è sempre vero, e a maggior ragione non lo è in un settore come il servizio idrico, soggetto a un regime di monopolio naturale. Così come non è vero che l’ingresso dei privati sul mercato abbia portato e porterà a un contenimento delle tariffe e a una maggiore disponibilità di capitale per gli investimenti: negli ultimi quindici anni, da quando cioè i privati sono entrati nel settore, la spesa per investimenti è scesa, mentre le tariffe sono aumentate mediamente del 60%. A finanziare gli investimenti sono state, sono e saranno le tasche dei cittadini, attraverso le bollette o la fiscalità generale.
Se questo è il quadro generale di un settore dove la presenza del privato non ha portato reali benefici ai cittadini utenti, non si vede perché quella presenza debba essere aumentata per legge, imponendo un ingresso più massiccio dei capitali privati nelle multiutility e prevedendo la scadenza anticipata delle gestioni dirette. Gestioni dirette, o “in house” per dirla all’inglese, che non sono affatto in contrasto – come sostengono i fautori della privatizzazione – con il diritto comunitario: non a caso Belgio, Olanda, Austria, Lussemburgo, Norvegia e Svezia si sono mossi in maniera esattamente opposta all’Italia, stabilendo per legge la gestione pubblica dell’acqua. Ancora più eloquente il caso della Francia, sede delle prime due multinazionali mondiali del settore, che dopo 25 anni di gestione privata ha deciso di ripubblicizzare il servizio idrico.
Abrogare il decreto Ronchi, quindi, significa contrastare l’accelerazione sulle privatizzazioni imposta dal Governo e la definitiva consegna al mercato dei servizi idrici in questo Paese, lasciando aperta ai Comuni la possibilità di mantenere quell’affidamento diretto che è pienamente compatibile con la normativa europea. Questo per rivendicare, una volta per tutte, che l’acqua non è una merce, ma un diritto indisponibile: un bene che resta pubblico solo se il servizio idrico, che si vuole invece consegnare in mano ai privati, viene garantito a tutti e a condizioni accessibili per tutti.
Da qui anche la logica del secondo quesito referendario, che mira a rompere quel legame rigido tra tariffe e investimenti istituito dall’articolo 154 del decreto legislativo 152/2006. Se l’acqua è un diritto indisponibile, infatti, è evidente che una quota degli investimenti deve essere garantita dalla fiscalità generale, come la sanità, la pubblica istruzione, gli altri servizi fondamentali e le grandi infrastrutture. Solo una parte degli investimenti, quindi, deve essere coperta dalle tariffe. Quanto alle inefficienze della gestione, pubblica e privata, queste non possono essere scaricate sugli utenti. Né possono essere utilizzate come cavallo di Troia per una privatizzazione spinta il cui unico risultato sarebbe quello di aumentare le tariffe e i profitti, senza benefici in termini di investimenti, di qualità e di efficienza del servizio.
Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg
Comitato Referendario del FVG “2 SI per l’acqua bene comune”