Riportare il lavoro al centro dell’agenda politica

Il lavoro è oggi in una condizione di grande difficoltà, determinata da un lato dagli effetti della crisi e dall’altro dalla sua emarginazione nel discorso pubblico di un Paese che sembra volerlo rimuovere dalla sua identità. E’ andata svanendo la valenza ad esso attribuita dalla Costituzione che vi individuò il fattore determinante della formazione dell’identità del singolo che col concreto operare può esprimere il proprio ingegno e la propria capacità esercitando pienamente in questo modo il diritto di cittadinanza.
Ne è stata contemporaneamente messa in discussione la funzione di promozione della libertà e dignità della persona, tant’è vero che si sono alzate a più riprese voci autorevoli nel Centro Destra a rivendicare la modifica dell’art. 1 della Costituzione. Insomma, è stato ridotto a mero e impersonale fattore della produzione.
L’ideologia neoliberista ha tracciato un solco profondo tra la persona e la prestazione cercando in questo modo di ridurre al minimo il perimetro dei diritti. Si è cercato e si cerca di negare spazio alla dialettica contrattuale e di ridurre la dinamica salariale ad incrementi rapportati unicamente alla disponibilità ad assecondare le esigenze della produzione: lavorare di più, più intensamente e riducendo al minimo le relazioni sociali in fabbrica.
In questa logica c’è chi ha teorizzato che il concetto stesso di retribuzione definito dall’art. 36 della Costituzione come elemento costitutivo della condizione economica capace di garantire “in ogni caso” la libertà e la dignità di ciascun lavoratore e della sua famiglia, andrebbe ricalibrato in base agli effetti della crisi e agli attuali rapporti sociali. Insomma: libertà e dignità non sarebbero più principi costituzionali da sostenere e difendere, ma variabili legate ai cicli del capitalismo. Il passo successivo porta a considerare la retribuzione come il prezzo minimo che si riesce ad ottenere sul mercato per vendere un lavoro ridotto a pura merce che sempre più spesso non consente di superare la soglia della povertà.
Dunque, di fronte alla grande crisi economica, le ragioni del mercato si stanno configurando come una specie di diritto naturale al quale vanno sacrificate quelle del lavoro e, in ultima analisi, della democrazia. E mentre le prime diventano un problema generale, le seconde non vengono più riconosciute da una società che sta perdendo il senso della solidarietà e della coesione sociale.
Sono questi i motivi per i quali la Cgil ritiene impraticabile lo scambio tra diritti ed occupazione: si tratta di una strada a senso unico e senza uscita, perché quando non ci sono più diritti da scambiare anche il salario diventa elargizione. Un anno e mezzo fa un’azienda veneta assunse una ragazza con un contratto a tempo pieno pagandola 280 euro, straordinari compresi. Il caso fece scandalo, provocando l’intervento del Ministro del lavoro in persona. Ma l’offerta dell’azienda aveva una sua perversa coerenza: quella ragazza, appunto, non disponeva più di nulla da dare in cambio. Del resto, anche le assunzioni “regolari” a tempo indeterminato sono in molti casi accompagnate da un invisibile elemento di ricatto. Si tratta del fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”, ovvero di una lettera non datata di dimissioni che il dipendente è costretto a sottoscrivere all’atto dell’assunzione e che consentono al datore di lavoro di interrompere il rapporto in qualsiasi momento. È stato calcolato che esso riguardi il 15% dei contratti a tempo indeterminato e colpisca soprattutto le donne, in particolare quelle che rientrano dalla maternità. Forse, prima di sollevare il problema dell’art. 18, Confindustria dovrebbe preoccuparsi di combattere questa odiosa forma di discriminazione. Si tratta di scelte e comportamenti che dovrebbero indurre qualche riflessione più seria sulla dicotomia tra garantiti e non garantiti che viene, chissà perché, ascritta alla responsabilità del sindacato e che le imprese vorrebbero risolvere abbassando il livello complessivo dei diritti.
In realtà la scelta della precarietà come condizione permanente dei giovani (ma ormai quei giovani hanno sempre più spesso 40-45 anni) è stata perseguita dai governi di Centro destra e dal sistema delle imprese e corrisponde esattamente alla volontà di ridurre il lavoro a merce, a cominciare da chi entra nel mercato del lavoro. Si tratta dell’esito di anni di egemonia di quella cultura, incarnata da Berlusconi, che ha trasferito la possibilità di libera espressione delle persone non più nel lavoro, ma nel consumo, riducendo il primo unicamente a strumento per praticare il secondo.
Un’egemonia alla quale il Centro Sinistra non è stato in grado di contrapporre una propria autonoma proposta di modello sociale, capace di recuperare lo squilibrio tra capitale e lavoro. Come dimenticare la posizione di illustri dirigenti del Pd che legittimarono il ricatto di Marchionne invitando i lavoratori a votare “si” al referendum per evitare che la Fiat abbandonasse Torino. E che non spesero una sola parola per richiamare alle proprie responsabilità sociali un’azienda che ha potuto modellare per anni lo sviluppo industriale italiano anche attraverso gli aiuti di Stato e che ha indotto la politica ad adeguare a suo favore l’intero assetto logistico e le modalità di mobilità del Paese. Un’egemonia culturale che non è stata del resto scalfita neppure da una critica radicale dell’economia di mercato incapace di tradursi in idee e iniziative di riforma e regolazione concrete e praticabili.
C’è dunque bisogno di elaborare un progetto politico e culturale che riporti il lavoro a concorrere al governo del Paese in modo da costruire un baricentro improntato alla coesione e alla solidarietà sociale. Non si tratta di cercare nuovi riferimenti politici, ma di capire che quando la forbice delle diseguaglianze si allarga a dismisura, bloccando la dialettica e la mobilità sociale, le prospettive e le opportunità di sviluppo sono messe seriamente a rischio per l’intera collettività.
Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg